Illustration for the story “Niente di Speciale”, from the book “La Vita Come Viene ” written by Mauro della Porta Raffo
Illustrazione per il racconto “Niente di Speciale”, tratto dal libro “La Vita Come Viene” di Mauro della Porta Raffo
NIENTE DI SPECIALE
“Senti, Flora, oggi ho bisogno della macchina.
Lo so, dovevi pagare l’affitto dello studio, ma, se sei d’accordo, lo faccio io prima di andare a Milano e stasera, quando torno, ti porto la ricevuta”.
Cerco di essere del tutto indifferente e di controllare il tono della voce e, intanto mi chiedo se la devo guardare in faccia o no.
Come sarei più credibile?
Comunque sia, le parole devono essere quelle giuste perché Flora dice subito di sì e si alza da tavola per andare a prendere le chiavi della macchina ed i soldi che ha accantonato in qualche suo rifugio segreto.
“Guarda, però, che oggi è l’ultimo giorno.
Da domani sarei in mora e certe figure non mi piacciono, lo sai”, mi dice porgendomi il tutto.
Ogni cosa secondo i piani… magnifico!
Aspetto ancora un quarto d’ora e, poi, alle due precise, esco di casa per ‘andare al lavoro’, dopo aver salutato.
Mi accorgo che sto scendendo le scale fischiettando e sorrido di me stesso.
“Calma, non farti sentire così allegro, si può insospettire…”.
Due minuti e sono al volante.
Ingrano la marcia e via, verso la sala corse di Gallarate.
Fantastico… so già cosa farò con tutta la grana che mi appresto a vincere.
Nessun pentimento, perbacco.
Dopo tutto, è come se i soldi di Flora li andassi a depositare in banca.
Che fortuna quella mattina incontrare Giovanni mentre me ne gironzolavo sotto i portici del centro non sapendo bene che fare.
Erano almeno due anni che non lo vedevo e lui, incredibilmente, come se ci fossimo lasciati solo la sera prima, aveva cominciato a parlare senza che neppure gli passasse per la mente di dirmi dove era stato per tutto quel tempo.
Macché!
“Ti stavo cercando.
Ce li hai un paio di milioncini.
Ci sarebbe un affare sicuro oggi pomeriggio, per uno veloce.
Un impiego fruttifero” e, mi aveva preso sotto braccio parlando con quella sua aria complice che ben conoscevo.
“Di che si tratta”, gli ho chiesto, “Due testoni sono sempre una bella somma e non li tengo sotto il materasso.
Spiegati meglio”.
E così era venuta fuori la storia della ‘soffiata’.
Quello stesso pomeriggio, all’ippodromo di Torino-Trotto, nell’ultima corsa correva un cavallo che ‘non poteva perdere’.
Garantito da un suo amico che lavorava nelle scuderie e che, naturalmente, doveva avere una fetta del guadagno “Diciamo un dieci per cento”.
“Beh”, gli ho risposto, “Scusami, sai, ma se ‘deve’ vincere pagherà ben poco.
Chissà quanti lo sanno oltre a noi e se tutti lo ‘caricano’ il totalizzatore non ci darà niente o quasi.
Si rischia per nulla”.
“Sarà anche vero, ma una soluzione c’è.
Basta trovare una sala corse che funzioni anche da bookmaker.
Lo giochi a quota fissa e sai già cosa vinci.
Mi dicono che a Gallarate è possibile, quindi, … ” .
Mentre parlava, mi stavo lambiccando il cervello.
Dove diavolo li trovavo due milioni e, poi, perché proprio quella cifra.
Non si poteva giocare di meno?
Ora che ci pensavo Flora aveva da parte almeno un milione e mezzo per l’affitto del suo studio.
Dovevo trovare il modo di farmeli dare quei quattrini.
Poi, magari, potevo anche non giocarli, ma, intanto, almeno averli in mano.
In un attimo ero arrivato alla soluzione.
Tutto così semplice.
“Senti, Giovanni, lo so come vanno a finire queste cose.
Il cavallo ‘rompe’ o succede qualcos’altro e addio soldi.
Niente da fare per me.
Ti faccio i migliori auguri di trovare un altro finanziatore.
In bocca al lupo”.
Ci è rimasto decisamente male.
“Ma come? Sei cambiato così tanto?
Guarda che almeno metà della giocata te la garantisco io.
Sarebbe la mia quota.
Adesso sono un po’ a secco, ma, se dovessimo perdere (e non succederà di certo), te li ridò appena posso”.
Avevo proprio capito tutto: Giovanni era senza una lira e cercava di giocare con i miei soldi.
Così, alla fine, se si vinceva entrava in grana e se si perdeva tanti saluti e arrivederci.
“Ascolta”, gli ho detto, allora, ” Ecco la verità. Sono in crisi nera anch’io e non saprei proprio dove prendere centomila lire, figurati due milioni.
Ciao, eh, stammi bene” e me ne sono andato decisamente.
Fatti duecento metri ed accertatomi che non mi avesse seguito, eccomi nella prima cabina telefonica libera.
Il numero lo sapevo a memoria.
“Pronto. Sì, pronto.
Mi può passare Sergio… Grazie aspetto all’apparecchio”.
La strada giusta da seguire per fare il colpo da solo!
“Ciao Sergio, come va?
Senti, ho una soffiata per oggi a Torino.
Mi dicono che nell’ultima c’è un cavallo che vince di sicuro ma non ne conosco il nome.
Tu, con le tue amicizie, magari…”.
Sergio era uno che capiva al volo:
“Dimmi dove sei, dammi un recapito telefonico al quale rispondi solo tu e aspetta un’oretta. Va bene?” e ha messo giù dopo che gli avevo dettato il numero dell’apparecchio pubblico al quale mi trovavo.
Tanto per passare il tempo, ho comprato un giornale all’edicola all’angolo e mi sono seduto, in attesa, su una panchina che si trovava nei pressi.
Che sofferenza!
Leggevo e rileggevo le stesse parole senza capirne il significato.
Friggevo proprio e speravo bene.
Meno di tre quarti d’ora ed il telefono ha squillato.
“Pronto”, era Sergio, “Guarda che devi aver capito male.
La corsa truccata è la seconda e non l’ottava di Torino ed il cavallo è Torquemada, proprio come il grande Inquisitore. Capito?
Per il resto fa’ un po’ quel che ti pare. Ciao”.
Torquemada alla seconda? Strano, ma se lo dice Sergio… lui sa queste cose, se vuole.
E così, eccomi qui davanti all’agenzia ippica di Gallarate con un milione e mezzo in tasca.
Anzi, in mano. Li ho appena ricontati quei bei biglietti da centomila.
Pronto all’azione?
Entro in sala mani in tasca, con aria indifferente e, lentamente, mi avvicino al tabellone che riporta le corse di Torino.
Bene, bene, a fianco dei partenti ci sono le quote che il direttore accetta.
Alla seconda, dieci partenti, Torquemada numero quattro, quota fissa otto contro uno. Proprio niente male.
Adesso si tratta di decidere quanto giocare.
Ho circa venti minuti prima della chiusura delle scommesse e così mi siedo in un angolo a pensare.
Che faccio? Mollo o me ne vado?
Gioco centomila così, tanto per essere in corsa?
Un milione e mi metto a posto per un bel po’?
O tutto o non se ne parli più?
E se perdo, chi glielo dice a Flora stasera?
Finisce che non ci torno più a casa…
I pensieri si accavallano nella mia mente.
All’ora giusta, mi avvicino al cassiere.
“Senta” gli dico, “Me lo può dare a dieci Torquemada vincente?”.
“Dipende da quanto gioca”, mi risponde, indifferente.
“Un milione e mezzo”, mi sento dire.
Le parole sono uscite da sole.
“Aspetti”, mi fa quello, più interessato, “Non posso decidere da solo. Vado a sentire il capo” e si allontana dal suo posto dandomi un ultimo sguardo.
Pochi istanti soltanto ed eccolo che riappare accompagnato da un tale che conosco di vista.
“Ah, è lei? Bene, mi hanno riferito la sua richiesta.
Accettiamo la giocata: dieci contro uno” e mi porge lo scontrino sul quale sta scrivendo mentre parla ed io gli passo i soldi.
Oramai è fatta!
Resta solo da vedere come va a finire.
Metto il biglietto in tasca e me ne torno lentamente al mio posto.
Inutile rimuginarci sopra: come va, va e buonanotte.
Mancano sì e no due minuti alla partenza della corsa quando vedo entrare in sala Giovanni con un tipo alto e dall’aria decisamente arrabbiata.
Nascondermi non posso ed allora mi faccio avanti io.
“Ciao, sei proprio la mia rovina. Sono anni che non giocavo e, invece, dopo il nostro incontro di stamattina … mi è venuta una voglia …”.
“Hai fatto il furbo?”, mi fa, ma sorride nel dirlo.
“Ma che ti prende? Guarda che non me l’hai neanche detto il nome del tuo vincente e quindi…
Anzi, tu giochi all’ottava ed io ho giocato alla seconda.
Torquemada, mi piaceva il nome. Ventimila, così, per vedere come va” e mi allontano verso il televisore per seguire la corsa.
Giovanni mi si mette di lato con quel tale (dev’essere il suo nuovo finanziatore a quel che ho capito).
Gara tranquilla.
Allo stacco della macchina dello starter, Torquemada subito al comando.
Bella trottata in testa senza problemi fino alla piegata finale quando, dalle retrovie, come un fulmine comincia a progredire il numero dieci.
Che Dio lo stramaledica!
I due cavalli in lotta fino sul palo.
Fotografia per il primo posto ma so già d’aver perso.
Il cavallo in rimonta vince novantanove volte su cento.
Giovanni mi batte una mano sulla spalla come per confortarmi.
“Mi sa che è andata male, peccato” e si allontana.
Tengo stretto in mano il biglietto della giocata e spero che succeda qualcosa: che squalifichino il dieci, che mi sia sbagliato io, che si sia sbagliato il bookmaker a scrivere il numero del cavallo.
Niente da fare.
Ho perso ‘per una narice’ un milione e mezzo anzi, che dico, sedici milioni e mezzo!
Sono solo le tre e un quarto e già devo cominciare a pensare a come potrò tornare a casa alle otto.
Lo so, lo so, per prima cosa bisogna restare calmi, come non fosse accaduto nulla e così faccio, malgrado tutto.
Dopo una decina di minuti, decido di fare una puntatina al bar, lì all’angolo della strada.
Un tè non può che farmi bene.
E’ la cosa che bevo più volentieri e, mentre lo sorseggio, ho il tempo di pensare.
Appena entrato, mi trovo davanti quel tale, l’amico di Giovanni.
“Che ne dici”, mi fa, “di due tiri al biliardo tanto per passare il tempo.
Noi aspettiamo l’ultima di Torino e ci vogliono più di tre ore…”.
“Va bene, ma guarda che ho ben poco da perdere”, gli rispondo sincero.
“Ventimila a partita, poi si vede come va”, replica lui.
Ho giusto i soldi per pagare la prima e, quindi, devo proprio vincere se voglio avere una qualche speranza di alzare un po’ di lira.
La sala biliardo, sul retro, è appartata e tranquilla: un’oasi.
“All’italiana?”, gli chiedo, cominciando a disporre i cinque birilli al centro del panno verde.
“Va bene”, mi fa lui, mentre ingessa la punta di una stecca, “Giochiamoci la partenza”, e via.
Questo dannato gioca proprio sul serio e davo darmi da fare per stargli dietro.
Poi, verso la fine, quando praticamente ha in mano la partita, sbaglia clamorosamente e mi regala punti e palla in mano.
“Bene, bene”, mi dico mentre incasso le ventimila, “Vuoi vedere che questo è uno che se la fa sotto nei momenti decisivi. Speriamo”.
“Che ne dici, facciamo il doppio o continuiamo così?”, gli chiedo allora.
“Il doppio è ok per me”, mi risponde.
“Figurati per me”, penso alla fine della seconda partita che vinco molto più facilmente.
“Adesso smette e addio”, penso nell’infilare i soldi in tasca.
Macché, questo tipo mi è proprio stato mandato dal cielo!
Perde con bella regolarità, urla, bestemmia, ma continua a giocare e, cosa più importante ancora, a pagare.
Però, per quanto vinca, prima di arrivare a recuperare le mie perdite…
Trascorrono così un bel paio d’ore durante le quali faccio in modo di fargli vincere anche una o due partite, così, per dargli l’idea che anche lui ha qualche possibilità e per invogliarlo a continuare.
Per tutto il tempo non si affaccia nessuno nella saletta del biliardo.
Anzi, no, ecco che, in silenzio, entra Beatrice – la puttana del bar – che si siede in fondo e ci sta a guardare per un po’.
Ha l’aria rassegnata.
Lo sa che con chi gioca non si riesce a battere chiodo.
Troppo l’impegno per pensare anche alle donne!
Una mezz’ora e se ne va salutando con un cenno di mano.
Non ha neppure fiatato.
Una vera professionista!
Poi arriva Giovanni.
“Che fate? Due tiri tra amici?” ed ha l’aria preoccupata.
“E’ quasi ora d’andare”, dice rivolto al socio.
“Bene, finiamo e lo lascio tutto a te”, gli rispondo mentre studio il tiro.
Giacomo (si chiama così, dopo tutto, il mio avversario) lo guarda in silenzio, segue il giro delle mie palle, tira il suo colpo, beve ed appoggia con rabbia la stecca al bordo del biliardo.
“Non se ne parla per niente.
Sono sotto di un bel po’ e voglio continuare.
Dei cavalli non me ne può importare di meno”.
Deciso, sicuro, incazzato.
Non c’è niente da dire.
Giovanni prende atto e se ne va.
Lo sento mormorare, come parlando a se stesso: “Oggi non me ne va bene una”.
“Senti”, mi fa Giacomo, sempre più tirato in viso, “Prima di continuare sarà bene che mi faccia un po’ di conti, no?” e tira fuori di tasca il rotolo di bigliettoni che mi aveva così ingolosito quando lo avevo visto la prima volta.
Riprende dopo pochi secondi:
“Perdo quattrocentomila.
Ti faccio una proposta: ci giochiamo tutto nella prossima partita al centocinquantuno. Per te il doppio o niente.
Che ne dici?”.
In un altro momento non avrei accettato: mettere a rischio il ‘lavoro’ di due ore in dieci minuti, ma adesso…
“Certo”, penso tra me e me, “se mi va bene ho recuperato più di metà della perdita”.
Magari vado dal proprietario dello studio di Flora, gli racconto quattro storie, gli do le ottocento e gli dico che domani o dopo gli porto il resto.
Si può fare con più del cinquanta per cento.
Perché mi dovrebbe dire di no? E, poi, non stiamo neanche in mora, il termine scade oggi…”
“D’accordo”, gli faccio, “Però è proprio l’ultima perché se vinci siamo pari ma se dovessi perdere tu la cifra comincerebbe a diventare impegnativa e non mi va di portarti via troppo, sono fatto così” e gli sorrido.
Bella tattica, spero lo ammorbidisca perché non si sa mai e, poi, chi lo conosce questo?
E’ vero, finora ha pagato come un santo, sia pure tra sospiri e lamenti, ma dopo, chi lo sa?
Un’ultima partita che non finisce mai.
Sono impegnato al massimo e ce la faccio per un pelo.
Butto la stecca sul panno verde e mi volto verso Giacomo che, buio in volto ed ancor più arrabbiato, se possibile, sta tirando fuori di nuovo il rotolo.
Sembra incredibile tutto quello che va accadendo, ma questo paga.
Smania, ma paga.
Mi pare quasi di volare.
“Senti”, gli faccio, “Permettimi almeno di offrirti qualcosa al bar”.
Macché, non ne vuol sentire parlare e va fuori deciso.
Lo seguo e vedo che salta in macchina e parte con una sgommata da lasciarci le ruote.
Ottocentomila lire!
Le ho infilate nel portafoglio.
Non le devo più neanche toccare.
Come non le avessi.
Sono pieno di buoni propositi e spero proprio di cavarmela con Flora.
Rientro nel bar e, calmo, ordino un altro tè al latte.
Sorseggio e, intanto, penso a questo strano pomeriggio.
Fortunato o sfortunato?
Chi può dirlo?
E, poi, non è ancora finito.
Chissà cosa può succedere.
Lo so, mi conosco, sto già pensando che le corse non devono essere finite e la sala è lì, a dieci metri, che mi aspetta.
Una breve lotta con me stesso e, dopo, eccomi in agenzia.
Per il momento (ho deciso) mi guardo intorno, vedo le gare ancora aperte e se qualche cavallo mi ispira.
Non sono certo obbligato a giocare.
“Vedi”, mi sono appena detto, “Tutto sta a capire se questa è una ‘gobba’ o no perché se lo è bisogna insistere.
E’ vero, se parto dall’inizio a contare, sto perdendo, ma dopo la trottata di Torquemada tutto è cambiato e sono proprio in un buon momento.
Se è una ‘gobba’ va sfruttata fino in fondo”.
Da almeno vent’anni, chiamo ‘gobba’ la serie favorevole e ‘sfiga’ quella contraria.
Le riunioni di galoppo di Livorno e Roma-Capannelle sono già finite e di Torino-Trotto non voglio neanche più sentir parlare.
Però, ad Aversa, ippodromo Cirigliano, sono in grave ritardo: mancano addirittura due corse e già si sono accese le luci artificiali sul campo (lo vedo bene nel televisore).
Cirigliano… quel nome mi fa subito venire in mente il vecchio Ciro.
E’ di quelle parti lui.
Gran giocatore!
E cosa fa quando non sa più a che santo votarsi? Quando le ‘dritte’ avute si rivelano sbagliate? Quando gli rimangono pochi quattrini in tasca?
Si affida alla cabala: gioca l’accoppiata uno-otto senza neanche guardare chi corre.
Va bene, ho deciso.
Calmo, mi avvicino al banco e gioco due accoppiate, una per ciascuna corsa mancante, da cinquantamila lire l’una.
“Uno-otto alla settima e all’ottava di Aversa”, dico sicuro e, intascati i biglietti, me ne torno al bar.
Non voglio sentire le cronache. Meglio non soffrire in diretta.
Rientrerò in sala fra un tre quarti d’ora, mi avvicinerò al tabellone e poi sarà quel che deve essere.
Basterà un attimo di fortuna, che la mia ‘gobba’ tenga ancora per qualche minuto.
Non ci voglio pensare più!
Nel bar c’è un televisore e così cerco di seguire quel che succede su quello schermo e di dimenticare che, intanto, su quelli dell’agenzia…
Sono quasi le sette.
E’ ora di andare a vedere.
Nel fare i pochi passi occorrenti cerco di analizzare i miei pensieri: un tumulto indecifrabile.
Entro e mi avvio al tabellone di Aversa.
Bene, vedo da lontano che il risultato della settima corsa è già scritto.
“Fa’ che l’accoppiata sia uno-otto”, dico tra me rivolto non so bene a chi.
Come in un sogno… un magnifico sogno!
Là, sul foglio bianco c’è scritto, bello grande: primo classificato numero otto, secondo numero uno.
Poi, più sotto, la quota che mi interessa: accoppiata seicentodieci.
Il massimo! Il massimo!
Ho vinto tremilioni e cinquantamila lire.
“La ‘gobba’ tiene” e quasi mi metto a urlare di gioia.
Mi precipito all’incasso seguito dai pochi giocatori rimasti e dai loro commenti assai pepati.
“Bel colpo, eh?” Mi dice il cassiere contandomi i biglietti da cento.
“Perbacco”, rispondo e non so dire di più.
Dopo, più calmo, messi i soldi nel portafoglio, mi siedo nel solito angolo e aspetto.
Sono certo che vincerò anche all’ottava.
E’ così; quando si vince, si vince.
E’ come un’onda che riesci a cavalcare; finché ci stai su e l’onda tiene…
Il televisore comincia a trasmettere la cronaca dell’ottava di Aversa ma neppure lo guardo. Tanto, l’accoppiata è uno-otto.
Non lo guardo, ma sento la cronaca e, come è giusto e sacrosanto, tutto fila liscio.
Sono arrivati.
Mi alzo, mi sistemo davanti alla cassa e passo al cassiere la giocata.
“Scommette che sono altri tremilioni?”, gli dico sbruffoneggiando.
Sorride (tanto i soldi non sono suoi).
Aspettiamo le quote del totalizzatore che tardano un poco.
Già qualcuno dei presenti s’è fatto avanti.
“Senti sono rimasto a secco, dammi almeno un deca per mangiare”.
“Ehi, tu, se m’allunghi un venti ti do un cavallo sicuro per domani”.
“Devo tornare a casa e non ho neanche i soldi per il treno”.
E così via come capita sempre a quei pochi che fanno davvero un grosso colpo in sala corse.
“Va bene, va bene” e distribuisco quelli che a me, adesso, sembrano solo spiccioli.
E’ come fare un’assicurazione.
Mi sembra doveroso verso me stesso e penso che se un giorno, mi capiterà di trovarmi al posto di uno dei questuanti qualcuno sarà generoso con me.
Lo stesso ragionamento che faccio quando do l’elemosina.
“Ha proprio indovinato”, mi fa, all’improvviso, il cassiere.
“Seicentodieci massimo di quota e tre milioni cinquantamila lire la sua vincita” e comincia di nuovo a contare.
Esco quasi di corsa e mi rifugio in macchina.
Avvio e faccio d’un fiato tutta la strada fino al casello d’imbocco dell’autostrada.
Qui giunto, mi fermo di lato, tiro fuori il denaro e conto.
Ho nel portafoglio sei milioni e mezzo più un bel po’ di biglietti da dieci che mi infilo in tasca, senza stare a vedere quant’è.
Che gioia!
Che delizia!
Riparto, giro a destra verso il passaggio riservato al Viacard e là, proprio al casello, ecco Giovanni.
Sta cercando un passaggio: fa l’autostop.
Mi fermo, mi riconosce, lo carico e via.
Tutto in silenzio.
Non so che dirgli.
Anzi non so se dirgli qualcosa e, quindi, taccio.
Lui guarda fisso davanti e si vede che soffre per il mio atteggiamento.
Poi, passati cinque minuti, non ce la fa più.
“Bell’amico che sei. Prima mi dici no alla giocata, poi mi peli il socio a biliardo e lo fai incazzare tanto che mi ha praticamente mandato a quel paese e, adesso, non mi parli neppure.
Lo so che hai vinto, ti si legge in faccia.
Hai avuto una fortuna sfacciata ed è merito mio.
Se non mi incontravi stamattina, qui nemmeno ci venivi”.
“Beh”, penso, “Ha ragione” e mi infilo nell’area di servizio prima dell’ingresso in città.
“Vieni, ti offro qualcosa”, gli dico, “E quel tuo cavallo che doveva vincere?”, gli chiedo entrando nel grill.
“L’hanno ritirato, tu pensa”, mi fa di rimando, “Si vede che si era sparsa la voce e così ‘nisba’”.
Un caffè per lui e un bicchiere d’acqua per me e torniamo verso la macchina.
Mi fermo, appena vicino alla portiera, tiro fuori il denaro, conto veloce dieci biglietti da cento ed, entrando in auto, glieli metto in mano.
Mi guarda stupito ma, intanto, intasca.
“E’ la tua quota”, gli dico, “e non mi devi niente.
Ho avuto una ‘gobba’ e tu, in fondo, sei stato il vero motore di tutto.
E’ merito tuo e adesso siamo pari.
Andiamo a casa”.
“Andare a casa?”, mi fa Giovanni, tutto infervorato, “Ma sei matto? Se è una ‘gobba’ non devi mollare.
Andiamo a Campione, a Saint Vincent o in qualsiasi altro casinò che tu voglia.
Non perdere il momento magico”.
“Ci ho già pensato da solo, figurati. Ma non ne faccio niente”, gli dico mentre entriamo in città.
“Mi sta bene così. E poi sento che la ‘gobba’ è finita”.
Sono circa le otto quando suono la porta di casa.
Mi aprono ed entro tranquillamente.
“Ciao Flora. Eccoti qua la ricevuta dell’affitto dello studio.
Ce l’ho fatta per un pelo (e lei non saprà mai quanto questo sia vero in tutti i sensi).
Ci sono andato dieci minuti fa”.
“Bene, meno male”, fa lei, tranquilla, riponendo la quietanza nel cassetto, “e come è andata la giornata? Il lavoro?”
“Così, così, cara.
Niente di speciale” ed affondo il cucchiaio nella minestra.